lunedì 20 novembre 2023

Storia di Manuela

Oggi non vi regalo una ricetta, ma un breve racconto che ho scritto per il Transgender Day of Remembrance (TDoR) e che ha fatto parte della performance Gocce di memoria alla Rotonda Foschini del Teatro Comunale di Ferrara, letto dall'EducAttore Andrea Zerbato e accompagnato dall’esibizione di danza di Collettivo Corpo Creativo.
Ho voluto far rivivere nella memoria collettiva una delle tante, troppe vittime di femminicidio. Quella di Manuela in particolare è la storia di una persona invisibile, a cui la nostra società ha reso impossibile vivere la propria vita con dignità. E questo non è mai giusto. Buona lettura.

STORIA DI MANUELA

di Massimiliano De Giovanni



Mentre sta per chiudere gli occhi, Manuela ripensa a sua nonna. Per capire se un uomo è una persona affidabile, diceva, bisogna guardargli le scarpe. Ma non la punta, che quella si pulisce facilmente strofinandola sui calzoni, bensì la parte posteriore. Manuela ha sempre trovato molto sagge quelle parole, perché è dalle piccole cose che si riconoscono le persone perbene. E Cristian aveva delle scarpe bellissime.
L’aveva conosciuto in un giorno di pioggia, se lo ricorda come se fosse ieri. Era arrivata a Milano da un paio d’anni e aveva pubblicato un’inserzione su “AnnunciToday” per reclamizzare la sua attività. Cristian si era presentato tre ore prima del suo appuntamento, sperando che ci fosse già posto. Era entrato togliendosi le scarpe, per non sporcare il pavimento, e se ne stava fermo in un angolo, con uno sguardo tra il curioso e l’ammirato. Avrebbe atteso, se necessario, non aveva fretta.
Da quel momento Cristian era tornato da lei con una certa regolarità, per questo Manuela aveva deciso un giorno di fargli credito. La cosa era inusuale, ma la divertiva: lei che faceva credito a un banchiere! La nonna non avrebbe capito né approvato. A far credito non si guadagna niente, diceva sempre, e nel suo salone di parrucchiera aveva appeso un grande cartello per dissuadere le richieste e compensare il rischio da sopportare. Ma per Manuela non si trattava di un semplice rapporto di lavoro e, in fondo, poco le importava dei cinquecento euro che ancora avanzava.
Manuela si forza a rimanere sveglia per capire cosa sia successo all’improvviso tra di loro. Nonostante la differenza d’età e il suo italiano stentato, si erano sempre intesi bene e completati a vicenda. A volte riuscivano persino a captare i reciproci pensieri. Cristian era gentile, le diceva quanto fosse speciale per lui, che la loro non era una semplice storia di sesso. Perché aveva deciso allora di finirla così?
In fondo, come lui aveva accettato lei, lei aveva accettato i suoi sbalzi di umore, le sue ansie e le sue nevrosi. Aveva sempre cercato di assecondarlo, nei momenti di iperattività e anche quando era piombato in quello stato di depressione e disinteresse verso tutto e tutti. Aveva persino legittimato la sua apatia e imparato ad amare quel suo nuovo sguardo, quegli occhi lucidi e rossi, le sue pupille dilatate. Il focalizzare le proprie forze su di lui aveva però alimentato l’ego distorto di Cristian.
Le personalità narcisistiche hanno bisogno del controllo, e invece lei continuava a tenerlo legato. Avrebbe potuto capirlo e fuggire, negarsi, resistere all’impulso di baciarlo, invece si era servita del ricatto emotivo per costringerlo a non allontanarsi. In amore siamo tutti deboli e pronti più o meno a ogni trucco. Anche Manuela era così e quella sera si era fatta bella per lui, si era depilata, stirata i capelli, aveva messo una crema profumata, unghie lunghe laccate e aveva tinto le labbra di un rosso corallo. Vedendolo entrare, non poteva immaginare cosa sarebbe successo. Non poteva credere che dopo quell’ultima notte d’amore non si sarebbero più rivisti.
Manuela ascolta il tacere di Cristian, che dà voce a tutte le sue insicurezze. Quella del silenzio è una delle forme più crudeli di manipolazione psicologica. È una punizione, un modo per demolire lentamente un’identità. Chi la subisce conosce perfettamente quanto una violenza non verbale possa umiliare. E Cristian non dice una parola su quanto fosse giusto, necessario, opportuno continuare a vivere senza di lei, lui che in fondo era un uomo sposato e doveva salvaguardare quella parvenza di normalità.
Presa alla sprovvista, Manuela non ha neppure avuto la forza di reagire, non si è difesa, non ha lottato, è rimasta inerme perché l’indifferenza di lui la stava uccidendo. Era finita senza una ragione né un motivo, senza niente, con le labbra ancora rosse e quelle unghie intatte.
Le ferite al cuore sono le più difficili da rimarginare. Manuela conta quelle che ha dovuto subire da Cristian. Una, dieci, cinquanta, ottantacinque. Un destino segnato per entrambi, avrebbe sentenziato sua nonna sfogliando la Cabala. I numeri parlano e l’85 sottintende un realismo traumatico: per lei significava accettare la situazione così com’era e prepararsi ad affrontarla di conseguenza, per lui era una soluzione ai problemi, un modo per non lasciarsi influenzare da ciò che gli altri avrebbero detto e per vivere la vita alle proprie condizioni. Un numero che nella Smorfia napoletana rappresenta ll’aneme ’o priatorio, le anime del purgatorio, il luogo in cui soggiorna dopo morto chi non è stato tanto buono da finire in paradiso né così cattivo da precipitare all’inferno. Chi non è stato né uomo né donna, farà eco qualcuno.
Manuela sente che Cristian se ne sta andando, da quella casa e dalla sua vita, lasciandola in un lago di sangue. Poi, mentre chiude per sempre gli occhi, riflette su quanto sia ipocrita il mondo, sul fatto che non le sia bastato morire già una volta come uomo. Mentre il gas si diffonde dalla cucina e riempie l’aria, nel tentativo di coprire le tracce dell’ennesimo femminicidio, si chiede come sarà globalizzata la sua storia sotto i riflettori deformanti dell’informazione, se i giornali declineranno gli aggettivi col genere giusto, su quali dettagli privati la stampa indugerà, come la vestiranno al suo funerale, cosa sarà scritto sulla sua lapide, non certo “Manuela De Cassia, lavoratrice del sesso”.
E così, con gli occhi chiusi, il 20 luglio del 2020 Manuela muore, appena in tempo per non sentire la sua memoria calpestata e sconvolta, come quella di tante altre donne uguali a lei. 






venerdì 10 novembre 2023

Torta rovesciata all'ananas

Pioggia di ricordi è senza dubbio il film più intimista dello Studio Ghibli. Sono proprio le memorie di Taeko a dare struttura all’opera di Isao Takahata, le sue tradizioni di famiglia.


Riguardando l’anime mi sono reso conto di quante cose abbiamo in comune io e Taeko, a cominciare dai nostri ricordi legati all’ananas.

Nel 1966 in Giappone era abbastanza inusuale consumare frutta importata, e l’ananas si trovava solamente già pronto, sciroppato e in lattina. Nessuno nella famiglia di Taeko aveva mai visto dal vero quello strano frutto esotico e ignorava persino come sbucciarlo e mangiarlo. 

In quegli anni il Giappone si stava rialzando dalla sconfitta bellica e iniziava ad aprirsi ai mercati stranieri. Una vera emancipazione gastronomica. Per questo le aspettative della bambina erano alte.

Il frutto non ha però lo stesso sapore dell’ananas sciroppato, è decisamente meno dolce, ma Taeko continua a mangiarlo per orgoglio. Si prepara inconsapevolmente a gusti più adulti.

Alcuni sostengono che il termine ananas derivi dall’unione delle due parole arabe ain e anas (letteralmente “occhio umano”), per via delle scaglie esterne del frutto che ricordano appunto la forma di un occhio. L’origine del nome potrebbe però derivare anche da anana, con cui gli indios ai tempi di Cristoforo Colombo indicavano l’aroma, il profumo. Nei secoli furono associati a questo frutto nomi diversi e variegati, come pigna del re, per il costo elevato, e ancora oggi i popoli di lingua spagnola lo chiamano piña, termine ripreso anche dagli anglofoni col loro pineapple (“pigna-mela”).

Le piante appartenenti al genere ananas sono in tutto sei, ma solo una è capace di produrre frutta commestibile (un solo frutto ogni diciotto mesi circa), quella che viene comunemente consumata nelle tavole di tutto il mondo.

Come Taeko, da bambino ero abituato anch’io all’ananas in scatola, che mia madre utilizzava per una torta speciale. La sua era una variante della classica upside down americana, la cui ricetta si trova ancora oggi su alcune bustine di lievito per dolci. Più bassa e meno asciutta di una normale ciambella, resa umida da una generosa dose di caramello, più leggera e saporita grazie al succo d’ananas utilizzato al posto del latte.

Oggi ho cercato di ritrovare il gusto di un ricordo lontano, cucinandola io.


DOLCI > TORTA ROVESCIATA ALL’ANANAS



Farina > 250 g

Burro >  150 g

Zucchero >  120 g

Succo d’ananas >  150 ml

Uova >  3 uova

Vaniglia in polvere > 1/2 cucchiaino

Limone >  1

Lievito per dolci > 1 bustina

Ananas a fette al naturale > 1 scatola

Noci > 5


PER IL CARAMELLO:


Zucchero >  200 g

Acqua >  60 ml


Mettete sul fuoco la tortiera e distribuite sul fondo lo zucchero, versate l’acqua e fate cuocere lo sciroppo fino a che non raggiungerà una colorazione ambrata. Muovete la tortiera perché il caramello si sparga uniformemente anche sulle pareti.

Scolate le fette di ananas dal loro succo. Tenete da parte il succo e disponete le fette sul fondo della tortiera, inserendo al centro di ognuna mezzo gheriglio di noce (con la parte bombata rivolta verso lo stampo).

In una ciotola capiente montate il burro con lo zucchero fino a ottenere un composto spumoso, aggiungendo la scorza grattugiata del limone e la vaniglia.

Unite un uovo alla volta, continuando a montare, poi incorporate la farina setacciata insieme al lievito per dolci e infine il succo d’ananas.  

Versate il composto nella tortiera e cuocete in forno caldo a 180° per circa 45 minuti.

Capovolgete la torta ancora calda sul piatto da portata e lasciatela raffreddare prima di servirla.