lunedì 20 novembre 2023

Storia di Manuela

Oggi non vi regalo una ricetta, ma un breve racconto che ho scritto per il Transgender Day of Remembrance (TDoR) e che ha fatto parte della performance Gocce di memoria alla Rotonda Foschini del Teatro Comunale di Ferrara, letto dall'EducAttore Andrea Zerbato e accompagnato dall’esibizione di danza di Collettivo Corpo Creativo.
Ho voluto far rivivere nella memoria collettiva una delle tante, troppe vittime di femminicidio. Quella di Manuela in particolare è la storia di una persona invisibile, a cui la nostra società ha reso impossibile vivere la propria vita con dignità. E questo non è mai giusto. Buona lettura.

STORIA DI MANUELA

di Massimiliano De Giovanni



Mentre sta per chiudere gli occhi, Manuela ripensa a sua nonna. Per capire se un uomo è una persona affidabile, diceva, bisogna guardargli le scarpe. Ma non la punta, che quella si pulisce facilmente strofinandola sui calzoni, bensì la parte posteriore. Manuela ha sempre trovato molto sagge quelle parole, perché è dalle piccole cose che si riconoscono le persone perbene. E Cristian aveva delle scarpe bellissime.
L’aveva conosciuto in un giorno di pioggia, se lo ricorda come se fosse ieri. Era arrivata a Milano da un paio d’anni e aveva pubblicato un’inserzione su “AnnunciToday” per reclamizzare la sua attività. Cristian si era presentato tre ore prima del suo appuntamento, sperando che ci fosse già posto. Era entrato togliendosi le scarpe, per non sporcare il pavimento, e se ne stava fermo in un angolo, con uno sguardo tra il curioso e l’ammirato. Avrebbe atteso, se necessario, non aveva fretta.
Da quel momento Cristian era tornato da lei con una certa regolarità, per questo Manuela aveva deciso un giorno di fargli credito. La cosa era inusuale, ma la divertiva: lei che faceva credito a un banchiere! La nonna non avrebbe capito né approvato. A far credito non si guadagna niente, diceva sempre, e nel suo salone di parrucchiera aveva appeso un grande cartello per dissuadere le richieste e compensare il rischio da sopportare. Ma per Manuela non si trattava di un semplice rapporto di lavoro e, in fondo, poco le importava dei cinquecento euro che ancora avanzava.
Manuela si forza a rimanere sveglia per capire cosa sia successo all’improvviso tra di loro. Nonostante la differenza d’età e il suo italiano stentato, si erano sempre intesi bene e completati a vicenda. A volte riuscivano persino a captare i reciproci pensieri. Cristian era gentile, le diceva quanto fosse speciale per lui, che la loro non era una semplice storia di sesso. Perché aveva deciso allora di finirla così?
In fondo, come lui aveva accettato lei, lei aveva accettato i suoi sbalzi di umore, le sue ansie e le sue nevrosi. Aveva sempre cercato di assecondarlo, nei momenti di iperattività e anche quando era piombato in quello stato di depressione e disinteresse verso tutto e tutti. Aveva persino legittimato la sua apatia e imparato ad amare quel suo nuovo sguardo, quegli occhi lucidi e rossi, le sue pupille dilatate. Il focalizzare le proprie forze su di lui aveva però alimentato l’ego distorto di Cristian.
Le personalità narcisistiche hanno bisogno del controllo, e invece lei continuava a tenerlo legato. Avrebbe potuto capirlo e fuggire, negarsi, resistere all’impulso di baciarlo, invece si era servita del ricatto emotivo per costringerlo a non allontanarsi. In amore siamo tutti deboli e pronti più o meno a ogni trucco. Anche Manuela era così e quella sera si era fatta bella per lui, si era depilata, stirata i capelli, aveva messo una crema profumata, unghie lunghe laccate e aveva tinto le labbra di un rosso corallo. Vedendolo entrare, non poteva immaginare cosa sarebbe successo. Non poteva credere che dopo quell’ultima notte d’amore non si sarebbero più rivisti.
Manuela ascolta il tacere di Cristian, che dà voce a tutte le sue insicurezze. Quella del silenzio è una delle forme più crudeli di manipolazione psicologica. È una punizione, un modo per demolire lentamente un’identità. Chi la subisce conosce perfettamente quanto una violenza non verbale possa umiliare. E Cristian non dice una parola su quanto fosse giusto, necessario, opportuno continuare a vivere senza di lei, lui che in fondo era un uomo sposato e doveva salvaguardare quella parvenza di normalità.
Presa alla sprovvista, Manuela non ha neppure avuto la forza di reagire, non si è difesa, non ha lottato, è rimasta inerme perché l’indifferenza di lui la stava uccidendo. Era finita senza una ragione né un motivo, senza niente, con le labbra ancora rosse e quelle unghie intatte.
Le ferite al cuore sono le più difficili da rimarginare. Manuela conta quelle che ha dovuto subire da Cristian. Una, dieci, cinquanta, ottantacinque. Un destino segnato per entrambi, avrebbe sentenziato sua nonna sfogliando la Cabala. I numeri parlano e l’85 sottintende un realismo traumatico: per lei significava accettare la situazione così com’era e prepararsi ad affrontarla di conseguenza, per lui era una soluzione ai problemi, un modo per non lasciarsi influenzare da ciò che gli altri avrebbero detto e per vivere la vita alle proprie condizioni. Un numero che nella Smorfia napoletana rappresenta ll’aneme ’o priatorio, le anime del purgatorio, il luogo in cui soggiorna dopo morto chi non è stato tanto buono da finire in paradiso né così cattivo da precipitare all’inferno. Chi non è stato né uomo né donna, farà eco qualcuno.
Manuela sente che Cristian se ne sta andando, da quella casa e dalla sua vita, lasciandola in un lago di sangue. Poi, mentre chiude per sempre gli occhi, riflette su quanto sia ipocrita il mondo, sul fatto che non le sia bastato morire già una volta come uomo. Mentre il gas si diffonde dalla cucina e riempie l’aria, nel tentativo di coprire le tracce dell’ennesimo femminicidio, si chiede come sarà globalizzata la sua storia sotto i riflettori deformanti dell’informazione, se i giornali declineranno gli aggettivi col genere giusto, su quali dettagli privati la stampa indugerà, come la vestiranno al suo funerale, cosa sarà scritto sulla sua lapide, non certo “Manuela De Cassia, lavoratrice del sesso”.
E così, con gli occhi chiusi, il 20 luglio del 2020 Manuela muore, appena in tempo per non sentire la sua memoria calpestata e sconvolta, come quella di tante altre donne uguali a lei. 






venerdì 10 novembre 2023

Torta rovesciata all'ananas

Pioggia di ricordi è senza dubbio il film più intimista dello Studio Ghibli. Sono proprio le memorie di Taeko a dare struttura all’opera di Isao Takahata, le sue tradizioni di famiglia.


Riguardando l’anime mi sono reso conto di quante cose abbiamo in comune io e Taeko, a cominciare dai nostri ricordi legati all’ananas.

Nel 1966 in Giappone era abbastanza inusuale consumare frutta importata, e l’ananas si trovava solamente già pronto, sciroppato e in lattina. Nessuno nella famiglia di Taeko aveva mai visto dal vero quello strano frutto esotico e ignorava persino come sbucciarlo e mangiarlo. 

In quegli anni il Giappone si stava rialzando dalla sconfitta bellica e iniziava ad aprirsi ai mercati stranieri. Una vera emancipazione gastronomica. Per questo le aspettative della bambina erano alte.

Il frutto non ha però lo stesso sapore dell’ananas sciroppato, è decisamente meno dolce, ma Taeko continua a mangiarlo per orgoglio. Si prepara inconsapevolmente a gusti più adulti.

Alcuni sostengono che il termine ananas derivi dall’unione delle due parole arabe ain e anas (letteralmente “occhio umano”), per via delle scaglie esterne del frutto che ricordano appunto la forma di un occhio. L’origine del nome potrebbe però derivare anche da anana, con cui gli indios ai tempi di Cristoforo Colombo indicavano l’aroma, il profumo. Nei secoli furono associati a questo frutto nomi diversi e variegati, come pigna del re, per il costo elevato, e ancora oggi i popoli di lingua spagnola lo chiamano piña, termine ripreso anche dagli anglofoni col loro pineapple (“pigna-mela”).

Le piante appartenenti al genere ananas sono in tutto sei, ma solo una è capace di produrre frutta commestibile (un solo frutto ogni diciotto mesi circa), quella che viene comunemente consumata nelle tavole di tutto il mondo.

Come Taeko, da bambino ero abituato anch’io all’ananas in scatola, che mia madre utilizzava per una torta speciale. La sua era una variante della classica upside down americana, la cui ricetta si trova ancora oggi su alcune bustine di lievito per dolci. Più bassa e meno asciutta di una normale ciambella, resa umida da una generosa dose di caramello, più leggera e saporita grazie al succo d’ananas utilizzato al posto del latte.

Oggi ho cercato di ritrovare il gusto di un ricordo lontano, cucinandola io.


DOLCI > TORTA ROVESCIATA ALL’ANANAS



Farina > 250 g

Burro >  150 g

Zucchero >  120 g

Succo d’ananas >  150 ml

Uova >  3 uova

Vaniglia in polvere > 1/2 cucchiaino

Limone >  1

Lievito per dolci > 1 bustina

Ananas a fette al naturale > 1 scatola

Noci > 5


PER IL CARAMELLO:


Zucchero >  200 g

Acqua >  60 ml


Mettete sul fuoco la tortiera e distribuite sul fondo lo zucchero, versate l’acqua e fate cuocere lo sciroppo fino a che non raggiungerà una colorazione ambrata. Muovete la tortiera perché il caramello si sparga uniformemente anche sulle pareti.

Scolate le fette di ananas dal loro succo. Tenete da parte il succo e disponete le fette sul fondo della tortiera, inserendo al centro di ognuna mezzo gheriglio di noce (con la parte bombata rivolta verso lo stampo).

In una ciotola capiente montate il burro con lo zucchero fino a ottenere un composto spumoso, aggiungendo la scorza grattugiata del limone e la vaniglia.

Unite un uovo alla volta, continuando a montare, poi incorporate la farina setacciata insieme al lievito per dolci e infine il succo d’ananas.  

Versate il composto nella tortiera e cuocete in forno caldo a 180° per circa 45 minuti.

Capovolgete la torta ancora calda sul piatto da portata e lasciatela raffreddare prima di servirla.


martedì 23 maggio 2023

Parmigiana di melanzane alla pizzaiola

L’altra sera a cena abbiamo parlato di ordine e creatività. In un’epoca dominata dagli insegnamenti di Marie Kondo c’è ancora posto per il disordine? 

Una stanza disordinata induce a sopravvivere, per necessità, al di fuori dei confini dell’organizzazione, così diviene più facile pensare fuori dagli schemi. S. si è sempre aggrappata a questo: è vero che l’ordine produce scelte salutari, generose e convenzionali, ma è il disordine a generare la creatività.

Come conciliare tutto questo con la filosofia giapponese che promuove la forza del rigore? Forse, semplicemente, è una questione di equilibrio.

Il disordine può essere estremamente creativo, è vero, ma solo quando lo spazio diventa un contenitore fonte d’ispirazione. Al contrario, quando il caos ci travolge può essere lo specchio di un malessere a livello interiore che si ripercuote nella nostra quotidianità. Il rischio è quello di lasciarsi prendere la mano, fino a ritrovarsi nel disordine e nella disarmonia delle proprie relazioni sociali e affettive.

Il metodo delle 5S prevede un percorso costante, una svolta alle abitudini malsane. Un po’ come la dieta mediterranea (o quella dissociata, se fate palestra).

Si inizia classificando vestiti, oggetti e ricordi vari decidendo cosa tenere e cosa dare via (fase seiri), poi si passa al riordino vero e proprio (fase seiton) scegliendo un posto (il migliore possibile) per ogni cosa. Solo a questo punto si possono fare le pulizie (fase seiso), che devono essere puntuali, costanti e periodiche, tanto da arrivare al mantenimento dell'ordine e della pulizia (fase seiketsu). L’ultimo stadio rappresenta la disciplina (fase seitsuke), vero motore di ogni filosofia giapponese.

Per le ultime tre fasi potete farvi aiutare, ma le prime devono partire da voi. E S. finalmente sembra averlo capito.


SECONDI > PARMIGIANA DI MELANZANE ALLA PIZZAIOLA



Melanzane > 3

Passata di pomodoro > 700 ml

Farina > qb

Mozzarella di bufala > 300 g

Parmigiano Reggiano > 100 g

Cipolla > 1

Olive verdi > 50 g

Capperi sotto sale > 1 manciata

Basilico > 1 mazzetto

Olio EVO > 4 cucchiai

Olio di semi di arachidi > 1 l

Sale > 1 pizzico

Pepe > 1 pizzico


Lavate le melanzane, asciugatele e tagliatele a fettine sottili (2 o 3 mm).

Una volta che le avrete spolverate di sale, adagiatele su un piano e lasciatele riposare per un’ora, fino a quando non avranno perso l’acqua di vegetazione. 

Scaldate intanto l’olio extravergine d’oliva in una padella antiaderente e fate imbiondire a fuoco lento la cipolla affettata sottile. 

Unite la passata di pomodori e il mazzetto di basilico, le olive verdi a rondelle, i capperi (dopo averli dissalati in acqua e strizzati), salate, pepate e fate cuocere coprendo con un coperchio, fino a quando il sugo non si sarà rappreso.

Sciacquate le fettine di melanzana, asciugatele bene e passatele nella farina, quindi friggetele in abbondante olio di semi e poi lasciatele asciugare su carta paglia.

Foderate una teglia con la carta forno, stendete un velo di sugo e coprite con uno strato di melanzane fritte. 

Proseguite con un secondo velo di sugo e con la mozzarella tagliata a dadini, quindi spolverate di Parmigiano Reggiano grattugiato e coprite con un secondo strato di melanzane fritte. 

Continuate fino a esaurimento degli ingredienti, terminando con uno strato di sugo e con una bella grattugiata di Parmigiano Reggiano.

Infornate per 40 minuti a 200 °C, lasciando gratinare bene la superficie. 

Servite la parmigiana tiepida guarnendo con qualche foglia di basilico fresco.

giovedì 4 maggio 2023

Filetto di salmone alla soia con salsa di cipolle ai fichi

Ieri sera a cena abbiamo parlato di ex amici. Non è stato facile per S. tornare a fidarsi dell’amicizia. Liberarsi dei fantasmi del passato e affidarsi ancora una volta a qualcuno richiede tenacia e lei ha speso troppe energie per accettare il tradimento della persona a cui aveva dato la sua fiducia incondizionata. Non riusciva a trovare giustificazioni per quel tradimento perché l’amicizia non è di per sé accomodante, è più dogmatica dell’amore, non accetta sfumature di comodo ma solo colori primari. Se viene tradita è per sempre. Quell’abbandono era arrivato all’improvviso, in un modo del tutto inaspettato e l’aveva lasciata attonita, annichilita, incapace di reagire. Poi aveva provato odio e risentimento, sentimenti che dovevano essere elaborati e lasciati andare via. E finalmente un giorno ha capito che reprimere la rabbia, la tristezza e il dolore non era la strada giusta per andare avanti, così ha smesso di combatterli e di sopprimerli, riuscendo a sconfiggere il ricordo. Ce l’ha fatta perché ha smesso di ignorare una semplice verità: lei era innamorata di quel suo amico speciale, ma di un amore che non poteva essere ricambiato e che oggi, per sua fortuna, non esiste più.

 

SECONDI > FILETO DI SALMONE ALLA SOIA CON SALSA DI CIPOLLE AI FICHI

 


Salmone > 400 g

Cipolle > 300 g

Marmellata di fichi > 2 cucchiai

Brodo vegetale > 1 l

Olio EVO > 4 cucchiai

Aceto di vino bianco > 4 cucchiai

Zucchero > 60 g

Sale > 2 pizzichi

Pepe > 2 pizzichi


Sbucciate le cipolle, affettatele finemente, mettetele in una ciotola capiente e tenetele a bagno per 30 minuti nell’acqua fredda.

Preparate intanto la marinatura per il salmone: in una ciotola sciogliete lo zucchero nel vino bianco aromatico, aggiungete la salsa di soia, 1 spicchio d’aglio pestato e lo zenzero grattugiato.

Togliete la pelle dai filetti di salmone partendo dal lato della coda e mantenendo la lama quanto più possibile aderente alla pelle, per avere il minor scarto possibile. Eliminate con una pinzetta le eventuali spine rimaste e lavate i filetti per rimuovere le squame. Asciugateli con la carta da cucina.

Immergete i filetti di salmone nella marinatura e lasciateli riposare per 30 minuti a temperatura ambiente.

Scolate le cipolle e fatele cuocere in una padella antiaderente bagnandole col brodo vegetale, un mestolo alla volta.

Dopo 30 minuti aggiungete lo zucchero, 1 pizzico di sale, 1 di pepe e l’aceto di vino bianco, proseguite la cottura per altri 20 minuti e poi unite la marmellata di fichi. Cuocete la salsa mescolando spesso, fino a quando le cipolle non si saranno completamente disfatte.

Strofinate ora il fondo di una padella antiaderente con 1 spicchio d’aglio tagliato a metà. Aggiungete l’olio e rosolate i filetti di salmone (dopo averli asciugati bene con la carta da cucina) 2 minuti circa per lato, facendo attenzione che l’interno rimanga rosa.

Fate restringere la marinatura a fuoco lento.

Servite il salmone su un velo di salsa di marinatura e accompagnatelo con un cucchiaio di salsa di cipolle ai fichi.

 

domenica 2 aprile 2023

Torta glassata con crema al burro matcha

Si dice che l’amore vero si manifesti nei piccoli gesti, negli sguardi attenti, nelle carezze inattese, nella presenza silenziosa che dice più di mille parole. Cosa accade, invece, quando l’amore è immediato, istantaneo con uno sconosciuto?

C’è chi, per innamorarsi, ha bisogno di tempo per conoscersi e accertarsi di essere ricambiato. M, al contrario, è uno dall’innamoramento facile. Attraverso l’amore si definisce perché l’assenza di amore ha creato in lui una sorta di vuoto: lui cerca di colmarlo attraverso l’altro, ma un vuoto emotivo che appartiene al passato non può essere colmato. Quel vuoto va risanato e non riempito.

Ogni sguardo ricambiato scatena in lui un’ondata di sostanze chimiche che eccita le terminazioni nervose dei suoi occhi, provoca una contrazione dei muscoli e dilata le pupille. Dopamina, noradrenalina e serotonina agiscono sulle sue ghiandole e così le mani gli sudano. È felice e allarmato al tempo stesso. Sa che dovrebbe distogliere quello sguardo, ma non ci riesce mai. 

Ogni volta guarda il ragazzo di turno e ha come la certezza di essere sempre stato con lui. Senza sapere il perché, vorrebbe che fosse possibile. Senza sapere come, capisce cosa intendeva esprimere Julio Cortázar con quel suo “Me basta mirarte para saber que con vos me voy a empapar el alma”. Guarda quel ragazzo e sa che con lui s’inzupperà l’anima.

E così ogni volta s’innamora, per un’istante o per giorni, fino al successivo scambio di sguardi.

 

DOLCE > TORTA GLASSATA CON CREMA AL BURRO MATCHA

 


Farina 00: 100 g

Fecola di patate: 50 g

Uova: 3

Zucchero semolato: 150 g

Vaniglia in polvere: ½ cucchiaino

Limoncello: 1/2 bicchiere

Latte: 1/2 bicchiere

Burro: 1 noce

 

Per la crema al burro:

Formaggio spalmabile: 250 g

Mascarpone: 250 g

Panna fresca: 150 g

Zucchero a velo: 200 g

Tè matcha: 2 cucchiaini

 

Per la bagna:

Acqua > 200 ml

Zucchero > 80 g 

Limoncello > 100 ml

 

Per la glassa al cioccolato:

Cioccolato fondente: 150 g

Panna fresca: 80 ml

Acqua calda: 40 ml 

Zucchero: 50 g

 

Con l’aiuto di una frusta elettrica, montate in una ciotola capiente le uova con lo zucchero e la vaniglia, fino a ottenere un composto gonfio e spumoso.

Incorporate la farina e la fecola di patate, mescolando dolcemente con un cucchiaio, sempre dal basso verso l’alto, per non far smontare le uova.

Versate il composto in uno stampo da imburrato e infarinato.

Cuocete in forno caldo ventilato a 170° per circa 30 minuti.

Con l’aiuto di una frusta elettrica, preparate intanto la crema, montando il formaggio spalmabile col mascarpone e lo zucchero a velo. Quando il composto sarà soffice e vellutato, aggiungete il tè matcha e la panna, continuando a montare.

Preparate infine la bagna al limoncello, lasciando sobbollire per 5 minuti in un pentolino l’acqua con lo zucchero. Spegnete il fuoco e aggiungete il Limoncello, mescolando bene per amalgamare gli ingredienti.

Una volta che il pan di Spagna si sarà raffreddato, tagliatelo in tre strati dello stesso spessore.

Inumidite generosamente il primo strato con la bagna al Limoncello, quindi ricopritelo con una dose abbondante e uniforme di crema al burro.

Coprite col secondo strato di pan di Spagna, inumiditelo col resto della bagna al latte, quindi versate la rimanente crema al burro e coprite col terzo strato di pan di Spagna.

Per una glassa al cioccolato lucida, portate a bollore la panna con l’acqua e lo zucchero, quindi allontanate il pentolino dal fuoco e aggiungete il cioccolato tritato molto finemente, mescolando con una frusta finché non sarà completamente sciolto. La glassa deve essere liscia e priva di grumi.

Posizionate la torta su una gratella per dolci e fate colare la glassa al cioccolato mentre è ancora calda (35° C, se avete un termometro da cucina).

Lasciate indurire la glassa a temperatura ambiente prima di servire la torta.




domenica 26 marzo 2023

Spiedini di maiale al Lapsang Souchong

L’altra sera a cena abbiamo parlato di yoga e di rinascita. T. ha curve dolci, nessuna tensione muscolare. In America, quei corpi che a un certo punto si lasciano andare, in un mix di lassismo ed età che avanza, li chiamano dad body. Ma lui è sempre stato così, anche quando aveva vent’anni e cercava di contenere quel fisico morbido per non essere rifiutato o deriso. 
Nella speranza che il sovrappeso fosse dovuto a un’intolleranza alimentare aveva nel tempo eliminato latte, pane bianco, salumi, surgelati, frutta e verdura in scatola, cereali, dadi da cucina, piatti pronti e gelati. Aveva provato a depurarsi con le tisane di tarassaco. Era andato in terapia temendo che il grasso nascondesse una forma d’insicurezza sessuale. Ed era stato da un’estetista per combattere con rituali distensivi e impacchi tonificanti una possibile ritenzione idrica dovuta a un’alimentazione ricca di sodio. Ma tutto questo aveva solo contribuito a renderlo più schivo e introverso.
Da ragazzo era convinto che i bisogni fossero tanto importanti quanto i desideri futili. È come se i primi nascessero da un’esigenza precisa, un disequilibrio che andava soddisfatto, mentre i secondi, più astratti, rappresentassero un’esigenza del superfluo. Per lui il bisogno era l’acqua, mentre l’orzata rappresentava il desiderio. Poi ha capito che il bisogno parte dal corpo, nasce da una spinta interna, ma finisce col trasformarsi in una dipendenza e si esaurisce nel soddisfacimento di un’esigenza, più o meno importante, in attesa di altri bisogni e nuove soddisfazioni. Il desiderio è al contrario una mappa: non porta a una soddisfazione immediata, ma ci indica verso quale direzione andare. Nella vita, come in una relazione. E il suo desiderio è sempre stato l’amore. Qualcuno che s’innamori di lui, delle sue stranezze e delle sue manie, del suo corpo non perfetto e non bello, del suo sorriso e della sua tristezza. Quel qualcuno, però, non è mai arrivato e, in cerca di una relazione, ha provato ad accontentarsi di amori liquidi, quelli che temono il cambiamento e si aggrappano a un immutabile presente. Una bolla perfetta quanto fragile, in cui è sopravvissuto senza azzardarsi, ma che un giorno è esplosa lasciandolo solo e guardingo, stanco di amare tanto, troppo, spesso a senso unico.
In quel momento, T. ha trovato un nuovo equilibrio grazie allo yoga. In questa filosofia di vita, il perno per gestire l’ansia e lo stress è basato sull’essenza stessa della disciplina, ovvero sulla parola “accettazione” che, una volta interiorizzata e fatta propria, si è rivelata per lui uno strumento terapeutico. Finalmente il suo corpo non era più fatto solo di carne, ma anche di un’energia vitale chiamata prana, in perfetta relazione con la mente e il pensiero. E così, a poco a poco, T. si è sentito pronto a ricominciare.
 
SECONDI > SPIEDINI DI MAIALE AL LAPSANG SOUCHONG
 

Pancetta di maiale> 400 g
Coppa di maiale fresca> 400 g
Vino rosso> 1 bicchiere
Zucchero> 2 cucchiai
Salsa di soia> ½ bicchiere
Limone> ½
Tè Lapsang Souchong> 1 cucchiaino
Peperone giallo> 1
Zenzero fresco> 2 cm
Alloro> 4 foglie
 
Preparate la marinatura mescolando lo zucchero col vino rosso, la salsa di soia, lo zenzero grattugiato, il succo di limone e il Lapsang Souchong (tè nero affumicato) polverizzato.
Tagliate la pancetta e la coppa di maiale in bocconcini uniformi.
Lasciate la carne nella marinatura per 30 minuti a temperatura ambiente.
Lavate il peperone e tagliatelo a falde, eliminando i semi e i filamenti bianchi. Tagliatelo quindi a pezzetti della stessa dimensione della carne.
Componete gli spiedini alternando un bocconcino di pancetta, un pezzo di peperone, uno di coppa, una foglia di alloro e così via. Se gli spiedini sono di legno, prima di usarli lasciateli per 30 minuti in ammollo nell’acqua.
Cuocete gli spiedini in forno caldo a 180° per 40 minuti, bagnandoli di tanto in tanto con la marinatura rimasta e rigirandoli a metà cottura.
Filtrate il liquido di marinatura rimasto e fatelo restringere a fuoco dolce in un pentolino antiaderente, finché il vino non sarà caramellato.
Servite gli spiedini su un velo di salsa al vino rosso.

martedì 31 gennaio 2023

Gamberi teriyaki con insalata sunomono di cetriolo e alghe wakame

Ho scritto alcune pagine del mio nuovo romanzo, una commedia sulla differenza di età in amore che avevo immaginato inizialmente per un graphic novel. A volte succede. Certe storie necessitano di più spazio, più parole.

Comunque sia, mi sono trovato a riflettere sulla scrittura. Questo romanzo, così come il primo, Torneranno gli sguardi, è pensato al presente.

Ci sono pochi romanzi scritti al presente, probabilmente lo avrete notato. È che di norma le opere di narrativa si scrivono al passato remoto e non tutti i lettori ammettono concessioni verbali. Per molto critici, poi, l'uso del presente è una moda, un danno collaterale provocato dalle scuole di scrittura. Una nota agente letteraria londinese addirittura non accetta romanzi scritti al presente.

Insomma, per i più le storie che si raccontano devono essere già accadute e quindi considerarsi concluse. Ma i miei personaggi sono vivi e nel vivo della loro vita. Non si nutrono di ricordi, le loro storie sono in divenire. E il verbo al presente trasmette un senso di immediatezza, trascina subito i lettori nel vivo della storia.

Probabilmente la mia è una deformazione professionale: nascendo come sceneggiatore di fumetti, per me il presente è il tempo del “qui e ora”, dell’azione, della crescita (anche interiore). Per questo lo scelgo. E sono in buona compagnia, oserei dire. Henri Charrière, Tom McCarty, Damon Galgut, Emma Donoghue, giusto per citare qualche autore a me affine.

Perché dovrei adeguarmi allo standard? Il tempo verbale in un romanzo può essere una discriminante sul giudizio finale? 

 

SECONDI > GAMBERI TERIYAKI CON INSALATA SUNOMONO DI CETRIOLO E ALGHE WAKAME

 


Gamberi: 400 g

Salsa di soia: 100 ml

Mirin: 100 ml

Sake: 100 ml

Zucchero: 20 g

Cetriolo: 1

Alga wakame: 10 g

Sale: 1 cucchiaino

Sesamo: qb

 

Per la salsa sunomono:

Aceto di riso: 4 cucchiai

Salsa di soia: 2 cucchiai

Zucchero: 1 cucchiaio

 

Fate rinvenire in acqua le alghe wakame. Lavate i cetrioli e tagliateli a fettine molto sottili. 

Immergete le fettine di cetriolo in una ciotola d’acqua con un cucchiaino di sale e lasciateli riposare per circa 5 minuti, poi scolateli.

Preparate la salsa sunomono mescolando l’aceto di riso, la soia e lo zucchero. 

In una ciotola capiente unite le alghe wakame, i cetrioli e irrorate il tutto con la salsa sunomono. 

In un pentolino fate cuocere a fuoco lento la salsa di soia, il mirin, il sake e lo zucchero finché il tutto non si sarà ristretto di circa un terzo del suo volume.

Cospargete i gamberi con la salsa ottenuta e cuoceteli in pentola o su una griglia, girandoli spesso e spennellandoli ogni volta con la salsa.

Servite i gamberi teriyaki con l’insalata di alghe e cetrioli e una spolverata di semi di sesamo.